Con l’ordinanza 3.08.2020, n. 16594 la Corte di Cassazione afferma che la mera tolleranza del dipendente all’attribuzione di compiti meno qualificanti rispetto al proprio inquadramento non vuol dire accettare il demansionamento.
La vicenda trae origine da una duplice richiesta: da un lato, di accertamento di intervenuta dequalificazione subita da una lavoratrice per illegittimo esercizio dello jus variandi; dall'altro, di condanna della parte datoriale al risarcimento del danno a causa della violazione delle prescrizioni di cui all'art. 2103 C.C.
Il datore di lavoro ha proposto ricorso in Cassazione avverso la sentenza di Appello che, confermando quella di primo grado, aveva accolto le istanze della proponente; l'argomentazione del ricorso si basava sul lasso di tempo (oltre un anno e mezzo) che la lavoratrice aveva lasciato trascorrere prima di impugnare il provvedimento di mutamento della sede e della tipologia di lavoro.
La Cassazione sottolinea innanzitutto che “l'acquiescenza tacita nei confronti di un provvedimento è configurabile solo in presenza di un comportamento che appaia come inequivocabilmente incompatibile con la volontà del soggetto d'impugnare il provvedimento medesimo; non può quindi bastare, a tal fine, un atteggiamento di mera tolleranza contingente e neppure il compimento di atti resi necessari od opportuni, nell'immediato, dall'esistenza del suddetto provvedimento, in una logica soggettiva di riduzione del pregiudizio, ma che non per questo escludono l'eventuale coesistente intenzione dell'interessato ad agire poi per l'eliminazione degli effetti del provvedimento stesso”.
Nello specifico, il giudice del gravame ha correttamente dato atto della “insussistenza di indici tali da consentire di ritenere che nel periodo di sottoutilizzazione vi fosse stata acquiescenza della lavoratrice idonea a rendere inammissibile l'azione dispiegata” e ha valutato il comportamento tenuto dalla parte ritenendo che “non si fosse evidenziata una chiara e certa volontà di accettazione del provvedimento aziendale”.
Inoltre, la Cassazione ha riconosciuto che la sentenza impugnata si è conformata al principio secondo cui “il divieto di variazioni in pejus opera anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza delle precedenti e delle nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori, sicché nell'indagine circa tale equivalenza non è sufficiente il riferimento in astratto al livello di categoria, ma è necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente in modo tale da salvaguardarne il livello professionale acquisito e da garantire lo svolgimento e l'accrescimento delle sue capacità professionali, con le conseguenti possibilità di miglioramento professionale, in una prospettiva dinamica di valorizzazione delle capacità di arricchimento del proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze”. Coerentemente, “il nuovo contratto collettivo può anche prevedere il reinquadramento in una nuova unica qualifica di lavoratori in precedenza inquadrati in qualifiche distinte, con la conseguente parificazione limitatamente a quella disciplina contrattuale (normativa ed economica) riferita alla nuova qualifica, ma ciò non implica necessariamente anche che insorga un rapporto di equivalenza tra tutte le mansioni rientranti nella qualifica". In altre parole, il lavoratore addetto a determinate mansioni non può essere assegnato a mansioni nuove e diverse che compromettano la professionalità raggiunta, ancorché rientranti nella medesima qualifica contrattuale.
Tutti motivi, questi, che hanno portato a rigettare il ricorso, accogliendo le istanze della lavoratrice.
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